Trump non ha vinto perchè razzista, ma perchè Washington è corrotta
“Drain the swamp in Washington!” è stata la promessa di Donald Trump ripetuta per tutta la campagna elettorale. “Drain the swamp! ” scandivano i suoi sostenitori per incitarlo.
Drain the swamp, ovvero “bonificare la palude dai coccodrilli”. Questa la priorità, dunque, dove la palude è il sistema corrotto di Washington e i coccodrilli sono le lobbies di Wall Street e delle corporations che corrompono, attraverso le donazioni milionarie, la classe dirigente che governa. Facendola governare male, negli interessi di pochi e contro l’interesse del popolo.
Le guerre? Le deciderà il complesso militare industriale. La distribuzione della ricchezza? Andrà a vantaggio della finanza. L’immigrazione? Verrà usata per avere manodopera a basso costo e così abbassare il salario di tutti. Drain the Swamp!
La vittoria di Trump – e la sconfitta di Hillary Clinton- è tutta qui.
Quando l’80% degli statunitensi è convinto che la democrazia sia corrotta per il peso che i soldi hanno nell’influenzare la politica del Congresso, è fisiologico che la vittoria vada a chi appare maggiormente in grado di rompere questo sistema.
Donald Trump lo ha capito, puntando tutto su questo: “Il sistema è corrotto, lo sapete, e non è possibile che dei politici corrotti possano cambiare un sistema da cui dipendono. In questi anni ho dato milioni di dollari ai politici e, vi giuro, prima di approvare una legge mi chiamavano per sapere se andasse bene. Io invece sono ricco, la campagna me la pago da solo e quindi posso cambiare il sistema”.
Se ancora non ci credete che sia stata la chiave della sua vittoria, guardate questo video: è lo spot elettorale su cui Trump ha investito di più nelle ultime due settimane prima del voto, addirittura l’unico trasmesso in alcuni Stati.
I numeri della “corruzione” della democrazia americana sono inoppugnabili: un congressman spende fino al 70% del suo tempo per incontrare i lobbisti e raccogliere donazioni in vista della sua rielezione; il 50% dei finanziamenti elettorali viene da poche centinaia di ultraricchi, che così selezionano i candidati da far votare agli elettori; per ogni dollaro investito in lobby il ritorno per le società è di 220 dollari; alle elezioni degli ultimi 4 anni, nel 95% dei casi ha vinto chi aveva raccolto più donazioni; i media incassano ogni anno 1,4 miliardi di dollari per trasmettere spot elettorali.
L’aggressività verbale con cui Trump ha trattato i temi dell’immigrazione e del lavoro, di certo ha eccitato le frange xenofobe e razziste della società, ma è servita soprattutto a rafforzare nella middle mass la credibilità della sua candidatura di rottura. Parole “uncorrect” proprio sulle due questioni -le disuguaglianze economiche generate dalla globalizzazione e l’imponente immigrazione irregolare- che più di ogni altra sono considerate il fallimento delle corrotte classi dirigenti.
Bernie Sanders era il suo alter ego nel Partito democratico. Stessa denuncia del sistema corrotto dai grandi finanziamenti della politica, al punto da accettare per la sua campagna delle Primarie esclusivamente piccole donazioni da parte di cittadine e rifiutare quelle delle imprese; stessa attenzione, con risposte da sinistra, ai temi del lavoro e dell’immigrazione. Non è un caso che negli scenari possibili, Sanders veniva accreditato dai sondaggi come vincente in uno scontro con Trump, a differenza della Clinton.
Hillary, nonostante le promesse finali e il sostegno della senatrice Elisabeth Warren e dello stesso Sanders, non è risultata credibile, con il suo pedigree da campionessa dell’establishment e i milioni di dollari fatturati dalla sua fondazione. La sua sconfitta nasce da lontano, dal quel modello di Partito democratico cresciuto sotto la Presidenza del marito, meno attento ai cittadini che alle industrie, alla finanza e ai grandi donatori. Un partito che non a caso da venti anni è minoranza quanto a deputati e senatori; che quando ha vinto, lo ha fatto proprio grazie alla radicale diversità di Obama.
I sondaggisti sono stati accusati di non aver previsto la vittoria di Trump. In realtà, the Donald risultava sempre in vantaggio netto rispetto alla Clinton su una sola voce tra quelle rilevate: la capacità di resistere, di ridurre l’influenza delle lobby. Il 49% degli americani pensava che fosse una sua qualità, contro solo il 32% che la riconosceva ad Hillary. Sulla stessa voce, Obama batteva McCain 48 a 34; quando vinse con Romney, il dato era 48 a 37.
Se il Partito repubblicano è stato battuto da Trump perché rivendicava la centralità delle donazioni dei multimilionari (con i candidati Jeb Bush e Marco Rubion inondati di centinaia di milioni di dollari di donazioni), il Partito democratico della Clinton ha perso perché ha ignorato il tema della corruzione oppure lo ha liquidato dicendo “si, è vero che il sistema è corrotto ma noi siamo contro”.
Non credo proprio che Trump sia in grado di cambiare il sistema corrotto di Washington, anzi, lo considero semmai un prodotto di quel sistema. Nonché capace di creare grossi danni alla convivenza civile.
Se dalla sua vittoria, però, negli USA si prenderà coscienza di quanto sia prioritario correggere una democrazia “corrotta”, allora potrà nascere un dibattito internazionale che permetterà di evitare nuovi e più pericolosi Trump.
Senza ammettere gli aspetti che rendono le democrazie corrotte e poco credibili agli occhi dei cittadini, offrendo soluzione per correggerli, non basterà esorcizzare i populismi attraverso il richiamo alla responsabilità.
Negli Usa come in Europa.